I disturbi del comportamento alimentare non sono disturbi dell’appetito ma della relazione.
“Amare è dare ciò che non si ha”, scriveva lo psicoanalista J. Lacan. Nell’amore ciò che viene dato non è mai dell’ordine materiale, ma dell’essere. Amare è donare la propria mancanza, donare sé stessi, ciò che non si ha.
Niente più dell’anoressia ci insegna che il desiderio dell’uomo non si soddisfa attraverso l’oggetto, che la natura del desiderio è irriducibile alla dimensione della domanda.
Sono spesso le bambine che sono state nutrite con più zelo che poi si ammalano. Le storie di tante pazienti raccontano di madri attente alla cura e all’alimentazione e di bambine accondiscendenti, che stavano li dove il genitore si attendeva che fossero.
In queste storie qualcosa non è arrivato. Non è arrivato quell’interesse particolarizzato che vitalizza l’altro e lo riconosce come essere distinto e amato nella sua unicità irripetibile. Non è arrivato, anche se il genitore ha amato con tutto se stesso il figlio, quel dare nella dimensione del dono, del segno.
Ecco allora che l’anoressica si farà paladina del desiderio, rifiutando la sua riduzione ad organismo portatore di bisogni. Rendersi pelle e ossa, rifiutare il cibo, come modo di mantenersi vivo presso l’altro, per interrogare il desiderio dell’altro: “Puoi perdermi?” è la domanda che si nasconde dietro la ferocia del rifiuto ad alimentarsi. E’ in fin dei conti un tentativo di gettare l’altro genitoriale nell’impotenza, nella paura e nell’attesa costante che la figlia mangi qualcosa, che non scompaia.
Questo non significa che le cause dei disturbi alimentari siano da inputare a dei cattivi genitori ma piuttosto a determinate logiche psichiche che hanno regolato quella madre o quel padre ancora prima della nascita del figlio.
Il rifiuto ad alimentarsi sta ad indicare anche un tentativo, seppur fallimentare, di autoaffermazione di sé e di separazione da un genitore dal quale fino a quel momento non si era riusciti a separarsi, alla ricerca di quella forza e di quella indipendenza attraverso il culto del proprio corpo.
Ma sarà un’autoaffermazione solo apparente, in cui la ragazza da un lato tiene l’altro a distanza, rifiuta ciò che le offre, dedicandosi unicamente al calcolo delle calorie, al peso e a quello che sembra fornirle in quel momento un rinforzo narcisistico, chiudendosi sempre di più in un rapporto esclusivo con lo specchio, dall’altro non tarda a svelarsi l’altro lato della medaglia in tutta la sua drammaticità: l’esercizio della rinuncia, il dominio della volontà sul corpo prendono il sopravvento in un soggetto che diviene letteralmente schiavo di se stesso, schiavo di un tiranno interno che impone limitazioni, rinunce e rigore, in un totale controllo di sé e del proprio corpo.
Non si può pensare allora alla cura dell’anoressia attraverso il ripristino di una presunta funzione alimentare alterata, perché non è di questo che si tratta, né attraverso un appello alla volontà del soggetto.La cura può passare invece solo favorendo il reinserimento del soggetto in una relazione affettiva, quella terapeutica. E’ li che la persona può sperimentare una relazione nuova, che non è più solo quella con il cibo.