Ragazzi che si tagliano e autolesionismo. Il dolore scritto sul corpo.

Per alcuni soggetti il corpo diviene il bersaglio di condotte autolesive che puntano a trasformare il dolore psichico in dolore fisico, como modo maldestro per trattarlo, per elaborarlo, per dirlo, scrivendolo sulla carne.

Non si tratta solo dei cosiddetti cutters, coloro che si procurano tagli e ferite su varie parti del corpo, oggi fenomeno purtroppo sempre più dilagante soprattutto tra gli adolescenti, ma anche di coloro che utilizzano in vario modo il corpo per esprimere un dolore, o per tentare di scrivere qualcosa della propria identità, per cercare di darle una forma, per individuarsi e riconoscersi.

Riempirsi di dolorosi piercing o tatuaggi oltre un certo limite, sottoporsi ad interventi estetici estremi o continui sono pratiche che più difficilmente tendiamo a vedere come un farsi del male o come la manifestazione di un disagio, perchè sono per così dire più “socialmente accettate” rispetto ai ragazzi che si tagliano le braccia.

Ma il farsi male non è in gioco solo quando investe il corpo, ma in tutti quei casi in cui il soggetto nella propria vita sembra costantemente a contatto con la sofferenza. Quando ad esempio si rinuncia in generale al proprio desiderio, a realizzarsi, ad inseguire un sogno, facendosi vittima e artefice allo stesso tempo di veri e propri autosabotaggi, non è anche questo un modo sottile di farsi del male? Che ci sia di mezzo il corpo o meno, in ogni caso sono scene in cui vediamo in primo piano quella che S. Freud chiamava “al di là del principio di piacere”, il soggetto sembra essere trascinato da una forza acefala che lo porta al di la del suo bene.

L’autolesionismo colpisce soprattutto le fasce più giovani perchè si tratta di un’età in cui il soggetto fa più difficoltà a separarsi dall’altro genitoriale e ad individuarsi e dunque il taglio sul corpo, i segni, la ferita possono rappresentare un modo estremo per abbozzare un tentativo di individuazione, per dire: “questo sono io, non sono solo quello che faccio vedere fuori…sotto la maglia c’è anche questo.”

Cosa possiamo leggere dietro queste pratiche?

La psicoanalisi ci insegna che in molti casi il dolore può essere proprio un modo per non soffrire, che in alcuni casi il dolore può essere addirittura ricercato dal soggetto.

Non si tratta necessariamente di masochismo, ma di un modo escogitato dal soggetto a sua insaputa per lenire una sofferenza più grande. Molti ragazzi raccontano infatti di tagliarsi per sentirsi meglio o per sentirsi vivi. Un modo seppur bizzarro di autoregolazione, per sentirsi vivi di fronte ad un senso di vuoto divorante, o per calmarsi rispetto ad un’eccessiva iperattivazione interna.

Le ferite autoinferte possono rappresentare anche un modo di comunicare all’altro il proprio dolore, un modo per rendersi visibile, per dimostrare che il dolore è reale, una richiesta disperata della presenza dell’altro. In questo troviamo una similitudine con l’anoressia in cui il soggetto ingaggia una lotta all’ultimo sangue per far emergere il segno del desiderio dell’altro: “non vedi che sto scomparendo?”.

E cosa accade lì dove il soggetto per varie ragioni non dispone di un mezzo per simbolizzare, per mettere in parola, per esprimere il dolore dell’anima, ma sente che questo dolore c’è seppure non ne comprende il senso o non sa dargli una collocazione? Ecco che i tagli si offrono come un atto, un agito, utilizzando il corpo come oggetto capace di calmare.

È solo all’interno di una relazione terapeutica, che è possibile spostarsi dall’agire sul corpo la propria sofferenza, all’elaborarla attraverso un dire che non passi più attraverso il corpo, ma attraverso la parola.

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